In occasione della Giornata del Medico a Sassari, presso l’Aula Magna dell’Università, cogliendo l’occasione di poter incontrare tutti i giovani laureati in medicina ed in odontoiatria, ho voluto fare alcune riflessioni sulla nostra professione.
Dal dopoguerra ad oggi, l’odontoiatria ha subito dei notevoli cambiamenti, non solo dal punto di vista clinico, ma anche come organizzazione strutturale degli studi.
Fino agli anni ’60 e ’70 il rapporto tra dentisti e popolazione era di 1/6.000 ed in certe aree arrivava ad 1 ogni 20.000 abitanti e solo una piccola parte della popolazione aveva accesso alle cure dentali. Il dentista era un medico, raramente specialista, che giornalmente cercava di limitare l’affollamento dei pazienti nella sua sala d’attesa e difficilmente era in grado di soddisfare la domanda di cure della popolazione.
In questa situazione proliferavano i dentisti abusivi, spesso odontotecnici che eseguivano per lo più estrazioni e confezionamento di protesi totali.
I concetti dell’igiene e della prevenzione delle malattie infettive raramente erano rispettati. La presenza in uno studio di una sala per la sterilizzazione dei ferri era un’utopia.
Il dentista italiano allora era in grado di eseguire pochi trattamenti apprezzabili, con tecniche in cui il massimo della qualità era rappresentato dalle orificazioni e dagli intarsi in oro, ma questi erano trattamenti che non tutti si potevano permettere. Il dentista di famiglia per lo più utilizzava l’amalgama per le otturazioni ed i silicati per i denti anteriori. L’endodonzia era una scienza confusa. Gli operatori più raffinati usavano i coni d’argento per l’otturazione dei canali, altrimenti si usavano delle paste a base di aldeidi.
L’anestesia era praticata solo nei casi più invasivi, tanto che nell’immaginario collettivo il dentista era associato al dolore ed alla sofferenza.
Con l’avvento dei compositi, all’inizio degli anni settanta, e dei primi materiali fotopomerizzabili, le cose hanno incominciato a cambiare, e negli anni ’80 si è assistito ad una vera e propria rivoluzione nei materiali, nelle tecniche e nelle conoscenze che ha dato dignità ad una professione che fino a quel momento certo non aveva.
Nel frattempo andavano sempre più ad affermarsi branche come la parodontologia e l’implantologia e tecniche sempre più raffinate per le riabilitazioni protesiche.
Il rinnovato aspetto della professione, insieme alla prospettiva di buoni guadagni, ha attirato sempre più medici verso questa specialità.
Questo ha coinciso nel 1980 con la creazione di una nuova figura professionale attraverso il corso di laurea in odontoiatria, che ha accolto giovani motivati e determinati a fare dell’odontoiatria la loro esclusiva professione.
Tutto ciò ha fatto in modo che alla fine degli anni ottanta il rapporto dentista-popolazione sia diventato quasi il doppio di quanto auspicato in sede europea, cioè 1 ogni 1.000 abitanti contro 1 ogni 2.000 abitanti (in alcune zone si è arrivati ad 1/800).
Questo esubero sommato alla crisi iniziata all’inizio del nuovo millennio ed all’avvento di una “odontoiatria commerciale” ha sensibilmente ridotto gli introiti dei singoli professionisti che confrontandosi anche con nuove realtà fiscali, normative e gestionali oggi vanno incontro in alcuni casi a notevoli difficoltà tanto che i giovani colleghi spesso non aprono nuovi studi ma cercano opportunità lavorative come consulenti o dipendenti di strutture a volte non propio adeguate ad un servizio di “assistenza sanitaria”.
Questa evoluzione rischia di svilire una professione che, come detto, negli anni era riuscita ad evolversi clinicamente e che oggi in alcuni aspetti subisce una deriva deontologica talvolta preoccupante.
D’altronde bisogna anche riconoscere che parlare di etica a “pancia vuota” è difficile, per cui mi auguro che chi si approccia a questo lavoro lo faccia sempre più per passione lasciando perdere le chimere di lauti guadagni e facili gratificazioni.